Un viaggio di sola andata   

“Solo andata” è il nome del bellissimo libro di versi pubblicato da Erri De Luca per Feltrinelli Editore, che definisce la sua poesia semplicemente “righe che vanno troppo spesso a capo”. Il primo capitolo del libro, che gli dona il nome, è un canto a più voci che narra, con indomita sensibilità, la storia di un emigrante africano mu sulmano nel suo partire, viaggiare e giungere sul nostro territorio. Anche senza conoscere le altre superbe opere di De Luca, il lettore può in poche pagine compiere il miracolo della memoria che diviene coscienza, poiché ciascuna stilla di dolore e forza che proviene dal coro e dalla voce narrante ci appartiene geneticamente. L’italiano emigrante, in America come nel nord Europa, è patrimonio indelebile delle nostre origini. Ancora oggi nei paesi lontani dai grandi centri abitati, residui di cultura rurale specie nel povero sud, l’estate diviene il periodo del ritorno, della memoria, appunto. Memoria che dovrebbe ancora di più farci soffrire consapevoli quando leggiamo la struggenza delle descrizioni della propria terra, del suo clima, della natura che imperversa dominante segnando il deserto che limita il mare. Come la natura che ha disegnato monti e colline mai valicati da seri interventi infrastrutturali nel nostro mezzogiorno. Provocando quelle insostenibili miserie che ancora oggi spingono tanti a delinquere, come gli uomini malavitosi sprezzanti della vita altrui rappresentati da Erri De Luca nel tratteggiare gli scafisti del viaggio verso le faville del vecchio continente. Educativo, formativo e rinvigorente questo passaggio lungo che ci viene fornito; da mettere a confronto con le squallide dichiarazioni di quegli uomini di governo che continuano ad evidenziare nell’immigrazione esclusivamente il rischio della delinquenza, dimenticando e non badando alla realtà oggettiva che ci circonda. Andando in nord Europa, a Stoccolma come a Bonn, ad Amsterdam come a Londra, l’evidenza della inevitabile integrazione è palese. La maggior parte dei lavori ritenuti “umili”, a spregio della dignità insita nel lavorare, è affidata ormai da anni con fiducia a popoli serventi quelli indigeni. Con una occupazione e una amalgama che possono provocare l’ira dei più deboli culturalmente, che si sentono espropriati di qualcosa, essendo gli unici papabili a quei posti di lavoro che sono andati persi quando la presunzione li ha fatti disprezzare, durante gli anni dello sviluppo. E che divengono così la base di chi sfrutta abilmente l’ignoranza e l’arretratezza, come avviene per i leghisti italiani o i neonazisti tedeschi. Pseudoseparatisti che andrebbero istruiti nei paesi baschi o tra i catalani per imparare qualcosa in termini di appartenenza e identità. Il lavoro logora chi non lo ha è una buona parafrasi di un vecchio detto di un senatore che meglio si addice alle azioni di un’altro senatùr e ai suoi uomini. Che non mollano una preda già inesistente da secoli, non già da quando l’emancipazione toccò appena cinquanta anni fa ai neri d’america, ma fin dai tempi in cui il dominante popolo romano cancellò la schiavitù in tutto l’impero. Che come un’onda è più volte comparsa e stata abbattuta, come ogni dittatura, grazie alla profonda assenza di cultura che le ha sempre accompagnate e che rappresenta il germe della sconfitta insito in queste novelle mozioni che si possono quindi ignorare senza timore.