Guerra silenziosa   

Riuscirà la riforma del patto di stabilità a incidere sulla silenziosa guerra che nasce dal 2000 tra le superpotenze mondiali? Superando le beghe italiane sulla validità o meno delle modifiche, che comunque sposano parte delle teorie della maggioranza e rinnovano l’evidenza dell’abilità del ministro Siniscalco, c’é da badare a quello che avviene intorno a noi. Da un lato abbiamo una offensiva, una ingerenza grave, di Condoleeza Rice nella vicenda della ipotesi di caduta dell’embargo del 1989 verso la Cina per la vendita di armi, che fu dettato dalle vicende di piazza Tienamen. Certamente le condizioni complessive cinesi da allora sono mutate, anche se ancora molto si deve fare per affermare che il paese rispetti i diritti civili. Nonostante questo, è veramente oltraggioso che la Rice abbia potuto dire “In questa area stabiliamo noi gli equilibri e non gli europei”, sottolineando una ipoteca sul mercato asiatico che gli Usa non possono pensare di sostenere. Come bisognerebbe domandarsi se non siano divenuti obsoleti i vertici della Bce, se prendono posizioni politiche contro la riforma del patto. Non si può far finta di niente quando gli Usa continuano ad aumentare il proprio deficit, forti di un indebitamento realizzato con una valuta che prosegue una ininterrotta discesa, insieme ad un prezzo del greggio che continua a salire. Greggio che dalla fine dell’anno scorso, gran risultato della guerra, in Iraq è ritornato ad essere scambiato con il dollaro, invece che con l’euro come avveniva dal 2000, poco prima delle Twin towers. Se è vero che la Bce si trova congiunturalmente impossibilitata ad abbassare i tassi di interesse, operazione che ovviamente favorirebbe l’economia dell’area, è pur vero che altra congiuntura ci torna favorevole, se attuata negli interessi della nostra comunità e non ostata da interessi d’oltreoceano. La riforma del patto di stabilità potrebbe portare, se ben gestita dai governi anche riguardo all’ingresso dei nuovi stati orientali, ad una espansione della liquidità nell’area Ue e ad una conseguente ripresa economica. Purché la Bce provveda a manovre fortemente correttive del sovrapprezzamento della valuta unica, ad esempio incoraggiando i paesi asiatici, che stanno pianificando la dismissione delle riserve in dollari, acquistando valuta come lo yuan cinese e il won coreano, insieme allo yen giapponese. Si riuscirebbe così ad ottenere il risultato di un rafforzamento del peso specifico dell’euro insieme ad una sua svalutazione che favorirebbe i nostri mercati. Non dimenticando l’altro fronte, che riguarda il tentativo degli Usa, anche armato, di affondare ogni chance di perdita del controllo del mercato del petrolio, che da Nixon in poi è diventato il vero misuratore della parità del dollaro. L’Ue rappresenta un mercato che acquista petrolio superiore di un terzo rispetto a quello Usa, controllando il 45 per cento delle esportazioni verso i paesi dell’Opec, organizzazione che gli stati uniti cercano di annullare, come con il tentativo di convincere la Nigeria a uscirne. Così come hanno distrutto il programma “oil for food”, spesso infangandone anche i responsabili, per attuare il Fondo per l’Assistenza all’Iraq: la differenza evidente rimane che il primo programma era in euro, mentre il secondo è in dollari. Forse dovremo prestare molta attenzione all’esempio venezuelano di Chavez, immaginando di imporre una strategia petrolio per euro, che punti anche ad uno scambio di risorse fornite dai paesi emergenti. Attenuandone l’indebitamento internazionale a favore dello sviluppo interno, anche a vantaggio dei nostri mercati.