La spirale asiatica   

Per principio, volendo essere compiutamente liberisti, si dovrebbe essere contrari ad ogni forma di dazio o di limitazione della libera circolazione delle merci, sempre dannosa come la storia della nostra economia, ed in particolare della nostra agricoltura, ci ha insegnato. E certamente il dazio non è la soluzione ai problemi della competitività del paese, checché ne dicano i leghisti. D’altro canto non si può negare che, palesemente, un aumento dei prezzi dei prodotti provenienti, per esempio, dalla Cina, imposto per dazio, possa rendere più appetibili i prodotti italiani. Ma è poi così vero? Il made in italy non potrà più essere preferito per i prezzi, come avveniva quando l’intervento dello stato, con la svalutazione della lira, salvava gli indici delle nostre esportazioni. Di contro, negli ultimi dieci anni, le nostre esportazioni sono calate del 40%, disegnando un declino difficilmente colmabile. “Made for Italy” è una scritta che si può ritrovare nelle etichette di alcuni prodotti, sotto il temibile made in china. Significa che molti imprenditori nostrani stanno cavalcando la tigre commissionando a fabbriche, non solo cinesi e spesso proprie, i prodotti pensati e progettati in Italia. Continuando a trasferire proprio quel know-how che poi consente l’imitazione, spinta fino alla contraffazione. Il trucco cinese del basso costo della mano d’opera, consente di risparmiare in investimenti strumentali, facendo fare a dieci operai quel che da noi è automatizzato. Forte della numerosità della mano d’opera, che può attingere ad un bacino virtualmente infinito il governo cinese si trova impossibilitato a compiere azioni che aumentino il costo del lavoro, come da qualche parte viene sollecitato a fare. E non solo per una questione di diritti civili legati al lavoro. E’ vana la speranza, o enorme il tempo da attendere, perché in Cina si determini la spirale consumistica, in cui i redditi si spingono verso l’alto per consentire la soddisfazione di bisogni sempre più ampi. Meccanismo che potrebbe spostare margini verso i nostri paesi, determinati dalla creazione di un nuovo enorme mercato. Al momento possiamo avvantaggiarci solo dalla creazione di qualche milione di nuovi ricchi, di cui solo alcuni andranno a rimpinguare il famoso “mille persone al mondo” che Enzo Ferrari sapeva di avere come clienti stabili per le sue auto. Un cambiamento omologatore vi sarà, ma occorrerà qualche decennio. Mentre attendiamo, eventuali politiche restrittive poste in essere a livello europeo, data la moneta unica, ci renderebbero ancora meno competitivi, se è vero, come purtroppo lo è, che altri paesi, come la Spagna da un lato e Francia e Germania per altro verso, riescono ad avere indici di sviluppo, e di esportazione, che ci lasciano ben ultimi. Perché allora non puntare ad una apertura globale ancora più spinta e ardita, perché non fare crollare ogni barriera e divenire il miglior paese in cui completare quanto parzialmente prodotto in Asia? In fondo il valore aggiunto, la ricchezza, il reddito tassabile sarebbe, in questo modo, totalmente italiano. Spingendo molte multinazionali a comprendere che installare stabilimenti capaci di completare il ciclo produttivo in Italia, supportati da una decente rete logistica, potrebbe migliorarne i profitti e fare dell’Italia una portaerei per l’Europa e il Mediterraneo. Purché si risolva il nodo del nostro insulso costo del lavoro.