Estate di libertà   

Nel silenzio più largo da parte degli organi di informazione italiani, nei giorni scorsi è stata diffusa l’importante notizia che a Tel Aviv il vicecapo di stato maggiore israeliano Moshe Kaplinsky e il generale palestinese Jamal Abu Zayed hanno concordato che la città di Jenin in Cisgiordania, con le zone limitrofe, passerà sotto il controllo della Anp, l’autorità nazionale palestinese, prima del ritiro israeliano da Gaza previsto nel prossimo mese di agosto. Questo fatto di importanza strategica e operativa, di grande valore, dimostra anche l’assoluta risolutezza del premier Sharon nel rispettare la road map che prevede ormai definitivamente il ritiro dalla striscia di Gaza dei quattrocentomila coloni israeliani, circa il 10 per cento della popolazione totale. Quello che stupisce è la scarsissima rilevanza che viene data all’intera operazione, da parte sia dei governi che dei media europei, benché sia ancora viva nella memoria di molti la grande tragedia che fu la rinuncia dell’Algeria da parte della Francia, con il movimento di oltre un milione di coloni che fu gestito, anche nel sangue e nel dolore, grazie alla forza e al prestigio del generale De Gaulle. Francia che aveva caratteristiche ed alleanze ben diverse da Israele, che rischia di non poter reggere da sola al grande sovvertimento sociale che arriverà dall’ingresso di una popolazione forte e abituata alla conquista armata della propria quotidianità, legata ad anni di espansione verso il sogno di una Israele biblica, capace di occupare i territori dal Giordano al mar Mediterraneo. Coloni il cui richiamo alla fedeltà istituzionale diviene ancora più complesso, quando una gran parte di popolazione, rappresentata dai suoi politici, si oppone al rilascio dei territori con motivazioni di vario tipo e con varia intensità. Ciascuno di noi si deve ben immedesimare, per comprendere quanto accade in questi mesi, nell’angosciante destino di dover abbandonare, per sempre, la terra e la casa in cui si è nati, nella consapevolezza di lasciarla tra le mani del nemico. Dove nemico non è solo il popolo arabo che più volte invase ed attaccò la propria nazione appena insediata, reduce da una shoà di cui portiamo ancora la vergogna, ma nemico è il deserto non gestito, contro cui ogni colono ha versato continue gocce di sudore e lacrime per vederlo fiorire e fruttificare. Se oggi il popolo d’Israele ha il grande compito di aprire la braccia per accogliere i fratelli delle colonie dentro confini più stretti, compito ben più arduo spetterebbe al paese amico più prossimo, l’Europa, che invece continua a controllare il proprio pannolino, incapace ormai persino di riferirsi ai valori costituenti della Nato o di darsi un ministro degli esteri condiviso. E’ sempre successo tutto d’estate o intorno all’estate, per motivi strategici complessi: balcani, spiagge, grattacieli, invasioni. Ed abbiamo paura che quella che s’avvicina possa essere una estate risolutiva, con Israele che dovrà misurarsi anche con l’ipotesi di minacce interne, come ha imparato a fare l’America dal 2001. Con intorno gli Hezbollah sempre più armati e decisi alla eliminazione fisica del popoli israeliano, un Iraq fuori controllo, un Iran in odore di grandi cambiamenti e la Turchia che preme alle porte europee. Il destino di Israele, la possibilità che il suo popolo viva in pace e sicurezza appartiene ai destini di ciascuno di noi e a quello dei nostri figli: potremo rimanere a lungo solo a guardare?