Asia, aree di libero scambio: segnali da non trascurare   

Il Giappone, nonostante gli atti del suo governo tesi a inasprire i rapporti con la vicina sorella cinese, ha lanciato formalmente la proposta di creare un’area di libero scambio che comprenda la Cina, l’India, l’Australia, la Nuova Zelanda e le nazioni Asean (Thailandia, Indonesia, Malesia, Singapore e Filippine). Si formerebbe così un colosso magmatico, pari al 25 per cento della produzione mondiale e al 50 per cento della popolazione del globo, che vedrebbe insieme un alleato militare strategico degli Usa, come il Giappone, unito al Paese che vanta la maggior parte del debito estero americano, la Cina. Quest’ultima alleata ormai militarmente con la Russia, seppure in un’inspiegabile sordina. E’ evidente come solo un’attenta applicazione del multilateralismo possa salvaguardare gli interessi economici di Europa e Nord America dall’aggressione del mostro a sette teste asiatico. Ma forse si dovrebbe andare oltre: creando una nuova area di libero scambio che preveda la partecipazione dell’Ue, dei Paesi in odore di allargamento dell’Est, insieme a Turchia e Israele, e insieme agli Usa, incluse le sue aree di libero scambio sudamericane. Rendendo così ancora più spinto il processo di globalizzazione e sopprimendo l’ipotesi di un secolo dominato integralmente dal fronte asiatico. Ovviamente senza annullare l’effetto mondiale di riduzione dei prezzi che innescherà inevitabilmente lo sviluppo della società cinese, non tanto verso il capitalismo, cosa gia fatta, ma verso un sano e diffuso consumismo. Il meccanismo che si dovrà gestire, solo con un Occidente integralmente liberalizzato, sarà quello di consentire una rilevante riduzione del costo del lavoro a fronte di una maggiore disponibilità per le famiglie di beni di consumo a prezzi ridotti anche del 50 per cento rispetto a quelli attuali. Modificando certamente l’equilibrio delle potenze capitalistiche attuali, ma garantendo una ripresa generale dello sviluppo anche delle aree africane, oggi serve delle proprie ricchezze naturali ancora in mani sostanzialmente coloniali. Come dimostrano le tragedie perpetrate in Sudan, nel Darfur, in Ruanda, Etiopia, Eritrea, Congo, Sierra Leone, Angola, Uganda, di cui portiamo tutti la responsabilità grave dell’ignavia con cui le stiamo gestendo.