Denegata giustizia   

Caro direttore, la sentenza della Cassazione sul processo al senatore Giulio Andreotti pone fine a un procedimento complesso durato dodici anni. Senza entrare nel merito delle verità svelate, è da evidenziare come il senatore abbia espresso soddisfazione per essere ancora in vita ad avvenuto giudizio. Il vero lato nero di questo processo è proprio la sua durata complessiva, fautrice come spesso accade di sopraggiunti termini di prescrizione. In questo specifico caso parliamo di una assoluzione, come potrebbe capitare, e capita, a molti. Ma ottenuta in un tempo biblico, così lungo da riportarci a qualche mese addietro, quando il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha bacchettato per l’ennesima volta l’Italia proprio sui tempi della giustizia, rilevando un aumento, sia della durata media dei processi che dell’arretrato, nel periodo 2002-2003 e perché le misure annunciate fin dal 2000 restano in attesa di adozione o di applicazione effettiva. Molti non sanno che l’Italia è spesso condannata a risarcire coloro che vedono un procedimento durare anche solo più di quattro anni, permettendo al risarcito, indipendentemente dal giudizio a cui partecipa, di ricevere somme variabili anche a partire da 2.000 euro. Per ottenere il risarcimento è necessario aprire un procedimento contro lo Stato Italiano presso il tribunale europeo, ottenendo quasi sempre una vittoria, poiché è sempre dello Stato la responsabilità finale dei ritardi. Vorremmo invitare a questo punto il libero senatore Andreotti a farsi paladino della battaglia condotta sul “caso Italia”, come ormai è definito, costituendo e presiedendo a pieno titolo una associazione di tutela per coloro che versano in queste annose situazioni di denegata giustizia, come viene chiamata in gergo tecnico l’attesa estenuante per sapere se si ha torto o ragione, nei casi migliori, per recuperare un credito o per vedere casomai dischiudersi le porte del carcere, che in Italia è un luogo disumano e non certo di recupero sociale. Quello che ci differenzia spesso da altri paesi è proprio l’assenza del costituirsi in libere associazioni di tutela, nonostante la vessatoria situazione di lungaggini legali tocchi prima o poi ciascuno. In ultimo, e spero che si colga il senso di mera provocazione, esprimerei un dubbio: il politico che governa può, o deve, dialogare con la malavita che opera, e spesso controlla, un territorio o deve sostituirsi alla magistratura, per esempio denunciando, benché in Italia, a differenza che negli Stati uniti d’America, l’azione penale sia obbligatoria? Specie nei nostri territori, a Sud, l’intreccio tra malavita e società è ramificato e spesso indissolubile: oltre a creare occupazione e spazi civili, momenti di riflessione e programmi di educazione civile, la politica che incontra la mafia sul suo percorso, cosa dovrebbe effettivamente fare?