Gli imprenditori non possono tacere   

Nei giorni scorsi, a livello locale e nazionale, è stato più volte tirato in ballo il tema della correttezza o meno dell’esprimersi sul governo da parte di Confindustria, adducendo la distinzione che deve esistere tra ambito politico e ambito industriale. Ma non è forse invece vero l’esatto contrario? Non è forse vero che poco, o nessuno, ascolto sia stato dato alle numerose richieste provenienti dagli imprenditori dell’unico settore capace di garantire e far misurare lo sviluppo del paese? Ricerca, innovazione e formazione. Tre temi su cui sembra si faccia ancora troppo poco e su cui, da sempre, gli industriali hanno chiesto la collaborazione del governo, ottenendola solo parzialmente. E questo sembrerebbe essere proprio un nodo politico. L’attenzione al mezzogiorno professata nelle ultime settimane non coincide con azioni decise a risollevare le sorti di tante aziende, con azioni che stimolino l’insediamento nel sud di nuove imprese, anche estere, con azioni efficaci su sicurezza, occupazione e burocrazia. Nodi che restano, inevitabilmente, politici. L’attenzione espressa proprio da Luca Cordero di Montezemolo nell’invitare chi si occupa attivamente di politica a non occupare cariche nel sistema confindustriale, segue proprio la direzione contraria a quella di cui si è ogni tanto fatti oggetto d’accuse. Perché allora scaldarsi tanto quando gli imprenditori chiedono stabilità, velocità ed efficacia nell’esercitare il ruolo di governo, localmente e nel paese? Perché, davanti alla denuncia di oscure manovre, oggi più palesi, di scalata di alcune banche effettuate in modo poco ortodosso, si levano tanti strali? Crediamo che questi atteggiamenti attengano in parte al populismo praticato da alcuni che ancora si mostrano con mantello, cilindro e bacchetta magica, ormai chiaramente individuati come personaggi da baraccone. Mentre per altri sembra il semplice bisogno di affermare con forza la distanza che ormai esiste tra paese reale e politica. Ancora torturandoci con le farsette da quota proporzionale e con i progettoni di partitoni, ma senza per nulla accennare ai punti, pochi ma buoni, auspictamaente, con cui si intenda mettere mano alla disagevole situazione che colpisce i più. Come avvenne verso la fine della precedente legislatura, con la memorabile bomba ad orologeria lasciata nelle mani di Tremonti, la legge 388 del 2000, così finalmente vede la luce il decreto sulla competitività, organizzato, come molti degli atti dei recenti governi, in modo da creare agi e disagi in tempi millimetricamente organizzati per dare vantaggio alla futura opposizione, più che pensati per fornire effettivi risultati in grado di stimolare l’imprenditoria italiana a rimboccarsi le maniche nuovamente. Già pronti tutti a ritrovarsi sul groppone una serie di “scelte difficili” che, piuttosto che produrre sviluppo, saranno utilizzate per sanare problemi contingenti, senza alcuna seria ipotesi di pianificazione condivisa da tutte le forze politiche. E dovremmo anche stare zitti.