Italia, l’impresa in Iraq e l’economia di guerra   

Si profila sempre di più l’ipotesi di un lento ma reale ritiro progressivo delle forze militari occidentali impegnate in Iraq, Italia in testa. Non da sola se si ricorda che proprio il massimo alleato satatunitense, il Regno d’Inghilterra, comunicò la decisione di ritirare le truppe il 4 luglio 2005, a soli tre giorni dall’attentato alle metropolitane, mentre Blair si trovava con i potenti del mondo a discutere delle promesse del millennio, il processo politico ed economico teso a risolvere i disagi dei paesi più poveri del mondo, con il continente africano in testa.
Ritiro che diviene sempre più drammatico se si considera lo stato complessivo di quei territori, corrosi dalla continua mattanza della popolazione civile, in fila per trovare un lavoro, inginocchiata in preghiera o mentre fa provviste nei mercati. Mattanza di protagonisti senza divisa, come ignoti e senza divisa sono gli assassini terroristi fomentati da una strategia che tende visibilmente a mantenere destabilizzazione politica nell’area. Facendo fallire ogni possibilità e ogni promessa di recuperare i miliardi spesi nella guerra in Iraq tramite lo sviluppo di sane economie basate su investimenti internazionali da parte delle compagnie che avrebbero tratto vantaggio dalla ricostruzione di un paese indebolito anche da oltre dieci anni di embargo. Hanno fallito l’obiettivo compagnie come la Research Triangle International, incaricata dal governo Usa, con oltre 600 milioni di dollari di provvidenze, di costruire la technicality del funzionamento della democrazia. Ma fallisce anche chi gioca al Risiko nell’area, con la bandierina delle postazioni in Arabia Saudita, ma con poche risorse operative in sicurezza in Iraq, portaerei per l’avanzata annunciata sull’Iran.
Speranza infranta da questo paese anche dall’abile mossa di dichiarare l’uso dell’euro a breve come moneta di scambio per il petrolio. Mossa che sarà vanificata se gli oltranzisti al governo non verranno placcati a breve dai moderati, proprio sulle scelte improprie relative all’energia nuclear: di cui non si può cancellare il naturale diritto al suo possesso, ma visibilmente strumentali quando riguardano uno dei paesi maggiori produttori di petrolio al mondo.