Contro la privacy   

Quali sono i costi che la privacy, cioè il diritto di non far sapere a tutti chi siamo e cosa facciamo, stanno imponendo alla nostra collettività? E di quanto è aumentato il prezzo, il valore, delle informazioni sui privati cittadini e sulle loro entità organizzate, economiche, politiche e sociali? Abbiamo paura che un nuovo proibizionismo si sia costituito, come sempre basato sulla costruzione di un consenso popolare alimentato proprio da chi trarrà maggior profitto dai divieti man mano costruiti. Senza dimenticare che in economia nulla si crea e nulla si distrugge, e che quindi questi maggiori costi pongono una contropartita di maggiori ricavi per qualcuno. Cominciamo dai costi di gestione del diritto alla privacy: partendo dalle varie authority, passando per le necessarie commissioni legislative e giungendo fino alle associazioni di tutela. Queste hanno determinato una serie di limitazioni, del fare e del non fare, che, di riflesso, hanno comportato i costi che sostengono poi gli enti e le aziende nell’attuare le procedure necessarie al rispetto delle norme in materia. Con la furbata successiva delle dichiarazioni firmate, da ciascuno di noi, senza lettura e cognizione alcuna; bastando infatti l’apertura di un conto corrente o l’iscrizione ad una raccolta punti per dare disposizione non solo di mantenere in modo strutturato e, come si dice in gergo, profilato, i nostri dati, ma anche di cederli amabilmente a terzi. Fino alle nuove norme a cui si dovranno attenere tutti a breve, che impongono l’installazione di sistemi di sicurezza e salvaguardia sui dati che si gestiscono nel compiere l’attività quotidiana del fare impresa, pubblica o privata che sia. Insieme al nuovo foglio dichiarativo, compilato solo da menti e mani esperte, da allegare ai prossimi bilanci. Sottraendo tempo produttivo a ciascun addetto a queste funzioni, meglio impiegabile, e cedendo parte della produzione a consulenti e strumenti resi indispensabili dal codice specifico. Un bel salto indietro, che ci riporta nei meandri del vecchio articolo 8 della legge Cossiga, quella che quasi venti anni fa s’impose sullo scandalo della schedatura degli operai Fiat, fino alle aberrazioni di quel folle “registro delle procedure” in cui si sarebbero dovute annotare tutte le operazioni meccanografiche, lasciato in bianco su suggerimento di tutti i consulenti aziendali dell’epoca. Sembrava che lo stile anglosassone del fidarsi fino a prova contraria fosse lentamente entrato nel nostro legiferare, dove veniva compiuto ogni sforzo nel punire l’illecito scoperto da analisi e indagine, senza tentare di costruire muraglie ipocriti, utili solo a definire meglio il prezzo della corruzione e del malaffare. Concetto che vale anche per la privacy di identificazione, dove qualcuno dovrebbe spiegare che male c’è a farsi rilevare le impronte digitali o di fondo oculare, per nulla dissimili dalla normale foto, solo maggiore garanzia della sicurezza collettiva. Che qualcuno abbia paura di poter essere scoperto con le impronte nel sacco? I casi sono due: o pensiamo che il marketing serva a far approfittare di noi, e se fossimo tutti così deboli ce lo meriteremmo, oppure dobbiamo riconoscere che la soddisfazioni dei nostri bisogni può essere migliorata dalla libera concorrenza tra i produttori, industriali o sociali, dello star bene. Che necessitano di gestire i nostri profili con costi inferiori di quelli attuali, affrontabili solo dai monopolisti di fatto, incapaci di garantire la qualità insita nel libero mercato, anche quello delle informazioni.