A morte Saddam   

Caro direttore, mentre l’Iraq si avvia a compiere, per la prima volta nella sua storia, il gesto mistico del libero voto, vagito di una democrazia tutta da costruire, assisteremo ad una repentina chiusura del processo, di stampo militare, a cui è soggetto Saddam Hussein e i suoi fedelissimi imprigionati. Già nei primi giorni successivi alla sua cattura lanciammo l’allarme verso una ipotesi di condanna a morte che fu subito paventata come pena per i crimini commessi. L’Italia, meglio l’Europa, dovrebbero mobilitarsi da subito perché un gesto simile non venga compiuto. La moratoria internazionale contro la pena di morte non è più una semplice battaglia di pochi, ma appartiene formalmente agli atti politici dell’Unione. appartiene oramai al sentire comune di tutti i popoli dichiaratamente democratici, fatta eccezione per alcuni stati americani che, su questo tema, appaiono scandalosamente retrogradi. La Norimberga irachena può e deve essere invece il momento in cui la Democrazia mostra la sua differenza rispetto alle dittature sanguinarie, condannando ad un carcere duro e di isolamento questi folli carnefici, creando così quel distinguo preciso la cui linea di demarcazione è proprio il rispetto incondizionato della vita umana. Non può essere il livello di efferatezza o il numero delle vittime a determinare, in alcun modo, il livello con il quale si acquisisca il diritto alla terminazione della vita. Non conta cosa abbia fatto Saddam, chi sia, cosa rappresenti. Conta la dichiarazione di diversità, l’illuminazione che può comportare, che la democrazia fornisce, non solo nell’evitare che Saddam Hussein sia decapitato in uno stadio, cosa per nulla differente da una iniezione letale, ma anche nel garantire che viva, nell’attrezzarsi per proteggere la sua vita. Perché è un valore la vita in se, a chiunque appartenga, ed è uno dei primi valori la cui difesa compete alla democrazia. Come dovremo interpretare la probabile non ingerenza della nostra nazione, dell’unione europea, ove dovesse capitare di sapere Hussein condannato a morte? Quale nuova piega o valore prenderebbe la nostra presenza, armata e umanitaria al contempo, in quei territori? Diventeremmo indiretti artefici di una gravissima anomalia, mai più giustificabile in futuro, se la nostra diplomazia, il nostro Governo, non si attrezzi, ancor prima del verdetto, ad esecrare la sola possibilità di un verdetto mortale, dato come vendetta purificatrice che riporta indietro l’orologio della modernità. Saddam Hussein morto diverrebbe martire per fanatici, specie nella concezione islamica della morte. La galera a vita, la condanna a vivere, diverrebbe invece un simbolo positivo, fautore di stupore e meraviglia proprio in quei popoli che dopo più di venti anni di tragiche guerre potrebbe interrogarsi nuovamente sulla propria condizione e sulle proprie individuali responsabilità. Illuminando e santificando ai loro occhi quel nemico che ancora per molti rappresentiamo.