E’ in gioco nell’Africa del Nord la partita delle risorse colonizzate   

Il Sudan è il più vasto stato nordafricano, in cui si stanno giocando partite fondamentali anche per le democrazie occidentali, senza che le popolazioni di queste democrazie ne siano perfettamente edotte. Si affaccia per circa 600 km sul Mar Rosso e confina con l'Egitto, la Libia, il Ciad, la Repubblica Centrafricana, la Repubblica Democratica del Congo, l'Uganda, il Kenia, l'Etiopia e l'Eritrea ed è produttore di petrolio per circa 209.000 barili al giorno con riserve stimate di circa 630 milioni di barili, unite a riserve di gas per circa 88 milioni di metri cubi di gas. Un paese ricco, verrebbe da dire, se non fosse che stiamo parlando invece di una delle zone più povere del mondo, battuta da carestie con milioni di morti a cui sommare una guerra ultraventennale tra le sue regioni principali, così come divise dopo il protettorato anglo-egiziano, del Nord e del Sud. In guerra da sempre anche perché è nel sud che si concentra circa l’80% delle risorse petrolifere del paese. Lascia quindi perplessi notare, come fa l’Economist in un recente speciale, quanto movimento vi sia nel nord, dove si stanno costruendo imponenti palazzi pronti ad ospitare una nuova Dubai, compresa una ambasciata americana dotata della più grande infrastruttura estera della Cia, al centro dell’area di influenza araba più significativa del mondo. Lavori edili e infrastrutturali finanziati da paesi esteri non solo occidentali, essendo anche imponenti ormai gli interessi della Cina in quell’area. Area che fu indicata come fonte e supporto del terrorismo internazionale già successivamente all’attentato che costò la vita al leader egiziano Moubarak nel 1996, coinvolgimento che vide l’Onu decidere un embargo aereo, poi completato da un embargo totale irrogato autonomamente dagli Stati Uniti d’America, che accusano il Sudan di avere anche supportato Bin Laden dopo il 2001. Embargo che appare poi violato dai grandi movimenti multinazionali che vedono la costruzione ad Alsunut, Khartoum, di un complesso gigantesco, completo di campi da golf, che diverrà il più grande hub commerciale e finanziario dell’Africa orientale islamica. Il quartier generale della Greater Nile Petroleum Operating Company è una opera finita ad ottobre costata oltre 4 miliardi di dollari, accanto alla quale in una grande vela sarà ospitato il comando della Petrodar. Entrambi le compagnie sono una jont venture tra investitori. cinesi, malesi, indiani e sudanesi che estraggono petrolio in Sudan esportandolo in particolare a vantaggio della Cina. Tutto sotto gli occhi di una comunità internazionale, europea in particolare, che assiste imberbe alla tragedia che si sta continuando a perpetrare nella terza zona in cui è diviso il Sudan, quella occidentale del Darfur, dove già sono morte oltre due milioni di persone e dove sembra inesistente l’accordo di pace del maggio 2006, essendo ricominciata quella che già Kofi Annan definì una vera e propria pulizia etnica, non accettabile in un paese che nei conti economici segna un aumento del Pil del 13% annuo.