Un sano protezionismo   

Il governatore Antonio Bassolino e i suoi alleati hanno un piccolo problema. E se non ne faranno un punto del prossimo programma di governo, se ne troveranno altri di cui poi si dovrà rispondere a fatica al proprio ampio elettorato. Spesso e da più parti arrivano alcuni messaggi convergenti ad ottenere alcuni risultati, effettivamente utili per la crescita delle nostre aree. Però questi risultati non vengono poi supportati da una adeguata politica di sviluppo. Il primo di questi messaggi fa riferimento alla necessità delle Pmi di dare luogo ad una propria crescita strutturale, capace di rispondere in modo più adeguato alle richieste di qualità nelle forniture di prodotti e servizi del mercato, in particolare quello derivante dalla domanda della pubblica amministrazione locale, che in tempi di recessione diviene una fetta di rilievo. Spinte quindi, spesso teorizzate e solo teoriche, a costituirsi in società derivanti da fusioni e da accorpamenti, specie nel terziario avanzato. Il secondo passaggio riguarda invece la specializzazione e la qualificazione richiesta per offrire maggiori garanzie di efficienza ed efficacia nella propria proposta. Non solo grandi, quindi, ma anche sufficientemente dotati di caratteristiche in grado di certificare le proprie capacità operative e imprenditoriali. Grandi, ricchi, bravi e, casomai, anche belli. Con il rischio, altrimenti, di essere fatti fuori dalle gare e dagli appalti, fonte unica di potenziale sopravvivenza per larga parte delle aziende in questo periodo. Per la qualificazione si sta dando fondo a ogni piè sospinto ad ogni forma di formazione possibile e immaginabile. Dedita però per lo più a due aree di target: giovani inoccupati e inesperti, come target primario da rendere appetibile alle richieste pressanti, mi si perdoni la feroce ironia, del vasto mondo imprenditoriale campano; secondo obbiettivo sono invece fasce già disoccupate da tenere a bada, insieme alle casalinghe, a cui prospettare la formazione di base per mantenerli al passo coi tempi, non si sa mai. E l’alta formazione? Per dimostrare invece la necessità di crescere, sono sufficienti i paletti imposti nelle megagare regionali, destinate a chi può garantire fatturati da monopolista e numero di addetti da multinazionale. Con un risultato tragico di cui sarebbe interessante conoscere i valori corretti: quante aziende campane, o meridionali, hanno potuto accedere alle ultime gare? Quanti milioni di euro sono stati invece veicolati verso investitori settentrionali, proprietari delle aziende aggiudicatarie? Se si proclama di voler puntare allo sviluppo delle nostre aree, come si pensa di farlo consentendo ad aziende di Padova o di Torino di porre le mani sul bottino delle gare, senza dare alcuno spazio agli imprenditori locali? Eppure sono le aziende del territorio che hanno il vero know how necessario ad integrarsi con le esigenze della pubblica amministrazione locale, fatta pur sempre da uomini e donne meridionali. E basterebbe poco per correggere il tiro. Basterebbe imporre che, per aggiudicarsi gli appalti, la compagine societaria abbia almeno il 30 per cento rappresentato da una organizzazione presente con occupati e sede nella regione, costituiti in consorzio, Ati o quel che si voglia, con la possibilità di accumulare i requisiti finanziari ed economici di ciascuno. Protezionismo? Sì, certamente; e che c’è di male?