Investire in comunita'   

Common Creative è il nome di un sistema di licenze, acquisibile dall’omonimo sito internet, utilizzato nel mondo informatico e multimediale per comunicare le modalità con cui si offre al mondo aperto la propria capacità e il proprio ingegno. Quello che nel mondo informatico è l’open source, la disponibilità di programmi per computer forniti senza codifica e quindi gratuiti e modificabili, si sta diffondendo in altre aree, come quelle musicali e del mondo delle immagini. Un esempio sarà presentato alla Fnac di Napoli il 16 giugno, alle 17,30, quando verrà illustrato il funzionamento di Club Music Web, un’iniziativa che favorirà lo scambio di creatività in ambito musicale, attraverso l’adesione di membri di una comunità tutt’altro che virtuale di musicisti e autori con l’obbiettivo comune di rendere reciproci i propri sforzi realizzativi. Ciascuno potrà così pubblicare un jingle a cui manchi una batteria o un testo a cui manchi una melodia, attraverso uno sforzo comune in cui possono incontrarsi domanda e offerta, fino a diventare vero business, quando questa risorsa viene usata anche per completare fisicamente un gruppo o per potersi offrire al mercato. Dopo l’e-business, quello elettronico che produsse solo la speculazione in borsa e generò la sfiducia che ancora aleggia verso internet da parte del mondo degli affari, dopo l’m-business, il non ancora ben avviato mondo mobile che permetta a qualunque operatore aziendale di essere, sempre e dovunque, connesso al proprio sistema informativo, arriva con prepotenza l’o-business: l’open business, in cui internet diviene ancora protagonista. E’ ormai una realtà oggettiva l’ampiezza del fenomeno delle comunità che provvedono a creare specifici programmi e che collaborano con sistemi innovativi ed evoluti al loro continuo miglioramento e ampliamento funzionale e prestazionale, ovviamente con scarsa presenza dell’Italia. L’esempio più eclatante è Linux, il sistema operativo basato su unix e ormai diffusissimo specie nei server internet nel mondo. A dispetto di aziende monopoliste che si stanno lentamente adeguando alla stravolgente novità, attendendo solo di avere saturato i propri target e di avere raggiunto il break even point, fino a quando, cioè, gli sforzi compiuti per reggere il sistema non diventeranno superiori alle entrate. Anche perché il gioco delle comunità open source non è slegato dai vantaggi che tutti ne conseguono. Ciascuno, partecipando anche solo come utente, contribuisce alla definizione di un prodotto o di un’idea che comunque produrrà un beneficio, in termini sia personali che organizzativi e produttivi, cioè commerciali. Non solo sostituendo costosi programmi su licenza che presentano continui malfunzionamenti, ma anche garantendosi reciprocamente un pronto intervento quando qualcosa non funzioni come previsto e atteso. E affidando la competitività del proprio risultato ad altri fattori, come l’identità costruita con la propria inventiva e alla unicità delle proprie caratteristiche, specie contenute nel proprio know how. Presto questo modello si adatterà anche ad altri mondi, diversi da quelli informatici, e converrebbe a comunità e associazioni imprenditoriali di incominciare a fare sperimentazione e ricerca per non rimanere indietro o, peggio, completamente annullati da nuovi monopolisti a livello globale.