Ricerca scientifica e innovazione: partire dalla creatività meridionale   

Una delle tragedie che attanaglia il mondo della ricerca scientifica, a livello planetario, è rappresentato dalle risorse economiche insufficienti a disposizione dei ricercatori. Fenomeno che ha indotto un sistema di assegnazione delle risorse solo ai progetti che sono più in grado di seguire la moda e le correnti politiche sottostanti, rappresentate dalle parole e dalle metodologie suggerite dai bandi stessi, a discapito di una innovazione reale che sappia volare alto e produrre cose nuove, anche di fatto e non solo a chiacchiere. Una forma di onanismo autoreferenziale che passa anche per i veti ora religiosi e ora accademici, in genere tesi a soffocare tutto ciò che possa spaventare o preoccupare, specie quando si teme la lesa maestà. Lasciando che accadano follie come quelle perpetrate intorno alla scoperta del genoma umano, non integralmente reso pubblico ma nel pieno possesso di quelle potenze economiche che correttamente desiderano rientrare dei propri investimenti. Desiderio di rientro che si annulla, annichilisce, quando invece si giunge nel vecchio continente: è in Europa, e in particolare in Italia, che la ricerca scientifica si arena completamente sulla non indispensabilità di ottenere risultati concreti. Perdendosi nei meandri della ricerca cosiddetta pura, che invece è pervasivamente inquinata dall’esercizio di potentati accademici tesi più a confermare propri modelli e teorie che a dare verso spazio alla scoperta. Anche perché mai sia che la stessa possa avere un suo scopo sociale, come nel caso eclatante dei farmaci o dei trattamenti medici che vengono sistematicamente annessi ed erogati dall’industria farmaceutica multinazionale. Si lascia fare il lavoro sporco, di sgrossamento, alle povere Università, pronti a fare offerte irrinunciabili quando il laboratorio pubblica i primi risultati, prodromi reali di un lavoro effettivo da realizzare: a questo punto solo con investimenti privati, che con la ineluttabilità del profitto giustificano l’assenza di un diritto pubblico allo sfruttamento della ricerca. E’ ben noto il caso della produzione di farmaci capaci di rallentare la diffusione dei danni da Aids/Hiv nei paesi più poveri del mondo, in Africa come in Sud America, che spesso, durante estenuanti trattative con i padroni delle ferriere, minacciano una autoproduzione in barba alle leggi internazionali sui diritti intellettuali. Cosa accadrebbe se dall’Italia venisse un nuovo esempio, in cui la ricerca avenisse in modo congiunto tra Università e Imprese, non solo grandi ma anche come consorzi di Pmi, con uno Stato che provveda a erogare un premio di cofinanziamento quando la ricerca produca un risultato di cui possa beneficiare, anche in parte, l’intero Paese? Un modello certamente difficile ma non impossibile e che potrebbe finalmente trasformare il fallimentare concetto di spin-off fin qui vissuto con ansia da tanti giovani in un reale ed effettivo progetto di impresa: purché sostenuto organizzativamente e amministrativamente dalle imprese mature e dalla potente macchina universitaria da cui sorgono.